Sono un papà diabetico e precisamente del tipo 1 giovanile. Mio figlio ha sei mesi e sono preoccupato di un’eventuale trasmissione genetica della malattia anche a lui. Pertanto Vi chiedo se esistono screening per i neonati tali da verificare la predisposizione alla malattia e, in caso affermativo, dove si possono fare.

La questione dell'ereditarietà del diabete di tipo 1 non è semplice e molti aspetti rimangono da chiarire. Non si tratta di un'ereditarietà secondo le modalità di trasmissione più note (quando un genitore malato può avere un figlio malato, sano o portatore) o che segue il classico meccanismo d'azione (quando ad un gene anomalo corrisponde ad una proteina anomala che a sua volta corrisponde alla malattia).

Il rischio di ammalarsi di diabete di tipo 1 nella popolazione italiana generale è pari a 0,2-0,3%. Se si tratta di fratelli, sorelle o di figli di un papà diabetico, il rischio è pari al 6% (un po' inferiore se ad essere diabetica è la mamma). Più in dettaglio, se il soggetto condivide i due geni riconosciuti attualmente come più "a rischio", la possibilità di ammalarsi aumenta, ma non supera, comunque, il 16%. Il rischio per un gemello monozigote (identico) di un soggetto con diabete di tipo 1 è invece intorno al 40% (molto più alto rispetto agli altri, ma, comunque non assoluto!). Nella maggioranza dei casi, però, la persona che presenta un diabete di tipo 1 è il solo della famiglia con tale patologia.

Cosa significa questo? Innanzitutto, la predisposizione al diabete di tipo 1 deriva dalla presenza di più geni, associati tra loro in maniera diversa. Ci troviamo nel capitolo delle cosiddette malattie "poligeniche" (cioè con più geni implicati). In secondo luogo, con ogni probabilità, oltre ai geni attualmente conosciuti come predisponenti, ne esistono altri non ancora identificati. Ulteriore spiegazione: gli stessi geni, anche se associati allo stesso modo, potrebbero dare una diversa predisposizione secondo l'ambiente nel quale vive il soggetto (interazione fattori genetici-fattori ambientali). Trovare un metodo di predizione quanto più valido ed affidabile possibile è stato uno degli obiettivi principali della ricerca in diabetologia nell'ultimo decennio.

Il diabete autoimmune di tipo 1 è caratterizzato da una lunga fase preclinica, da un periodo cioè in cui i segni ed i sintomi della malattia sono completamente assenti, la glicemia è normale ed il soggetto è in perfetta buona salute. Tale periodo viene comunemente indicato con il termine di prediabete. In questa fase, però, inizia l'attacco dell'organismo contro le cellule beta del pancreas, che sono le cellule deputate a produrre l'insulina e la cui distruzione causa, appunto, il diabete mellito di tipo 1.

Gli studi predittivi mirano al riconoscimento dello stato di prediabete (e quindi alla valutazione del rischio effettivo di sviluppare il diabete di tipo 1 negli anni successivi) mediante la determinazione degli autoanticorpi (anticorpi diretti non contro elementi estranei ma contro lo stesso organismo) rivolti contro la cellule beta del pancreas e, più recentemente, tramite la ricerca dei geni conosciuti considerati a rischio per lo sviluppo della malattia. La combinazione dei vari reperti (presenza di uno o più autoanticorpi, presenza di uno o più geni che conferiscono un aumento del rischio) permette di calcolare la possibilità di sviluppare la malattia con una buona precisione. Per il soggetto, almeno nella fase di screening, si tratterà di un semplice prelievo di sangue, a partire dal quale verranno ricercati i suddetti marcatori. Tali programmi di depistaggio sono in genere rivolti ai componenti della famiglia di un diabetico di tipo 1, ma alcuni progetti prendono in considerazione la popolazione generale.

Una volta accertato il rischio, si pone il problema della possibilità di intervento. L'obiettivo, in questo caso, è quello di ritardare e, se possibile, arrestare la progressione dallo stato di prediabete a quello di diabete franco. I tentativi effettuati, basati principalmente su interventi farmacologici o dietetici, non hanno finora mostrato risultati così radicali da poter essere applicati nella corrente pratica clinica, ma i dati ottenuti hanno contribuito a far conoscere meglio molti aspetti della fase preclinica, aprendo nuove ed interessanti prospettive di ricerca. Altri studi sono tuttora in corso ed i risultati, soprattutto a lungo termine, non sono ancora valutabili.

A chi rivolgersi? In Italia numerose unità ospedaliere o universitarie che seguono pazienti diabetici sono coinvolte direttamente o indirettamente in programmi di ricerca nazionali e/o internazionali riguardanti il prediabete. Le indagini, così come le eventuali terapie proposte sono in continua evoluzione. La cosa migliore è rivolgersi al centro al quale si fa riferimento per chiedere ulteriori informazioni sulla possibilità di inclusione in un progetto di screening.

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