Dare consigli ci fa sentire utili, dimostra a noi stessi e agli altri che siamo competenti in un certo campo, ci fa provare una sensazione di controllo della realtà e anche dei problemi dell’altro. Vedete però: ci fa sentire, dimostra a noi stessi, ci fa provare…: fin qui siamo centrati su noi stessi.

E’ un paradosso: voglio aiutare l’altro con un consiglio e tutto parte e si incentra su me e sul mio pensiero, su quello che ricevo io da questa azione di attenzione e di consiglio all’altro.

Rovesciamo la situazione. Voglio partire dall’altro, quindi inizio con il desiderio del suo bene, che ancora non so quale sia, dato che chi ho di fronte ancora non si è espresso.

A volte siamo così desiderosi di aiutare e quindi di appagare il nostro desiderio di autoaffermazione, che ci precipitiamo nell’aiuto e nel consiglio ancor prima di aver capito bene che cosa serva in quel momento. Calma, ripeto, partiamo dal suo bene: qual è?

Lo guardo con attenzione senza invaderlo con un’occhiata interrogativa e indagatrice che vorrebbe comunicare “dì pure a me, che ti capisco e so che cosa ti occorre”.

Attendere. Sorridere. Un gesto di accoglienza, di apertura. L’altro si sente a suo agio, siamo alla pari, sullo stesso piano; io non sono più forte di te perché ti trovi in un momento di dubbio e di debolezza, mentre io sono sereno e mi sento sicuro.

No, uguali, della stessa natura umana capace di eroismo e passibile di debolezza e smarrimento. Così si favorisce l’apertura e lo scambio reciproco di parole, sentimenti, pensieri, ragionamenti.

L’altro sente che è accolto (non basta che noi abbiamo il desiderio sincero di dimostrarci accoglienti) che è ben voluto, che non è e non sarà giudicato.

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