Alberto – il nostro ultimo figlio – è nato da un mese e mezzo. Sto arrivando a casa dopo una giornata tutta NO.

Il capo con la luna, telefonate a non finire, blocco per un’ora del sistema informatico, gli addetti alle pulizie che non si sono presentati perché hanno avuto un incidente stradale.

E la schiena, la mia povera schiena che sembra avere dentro una faina che rode. Eh sì, tra stress da lavoro e su e giù con i bambini da cambiare, da prendere in braccio (ne abbiamo tre: oltre Alberto, due gemelli nati due anni fa), la schiena geme.

Arrivo sotto casa con l’auto e parcheggio. Meno male, ho trovato un posto. Penso, prendo coscienza della giornata che è trascorsa e della tensione che sento. I muscoli tirati.

La mia faccia: mi guardo nello specchietto dell’auto e vedo il mio viso tirato. Stiro forzatamente i muscoli in un sorriso largo largo: posso farlo, ci riesco.

Penso a Luisa che mi aspetta, ai bambini. Anche lei è al termine della giornata, stressata, con il serbatoio in riserva. Mi ha telefonato stamattina avvisandomi che la tata è ammalata.

Chissà come se la sarà cavata. Sicuramente si vorrà sfogare con me. Ho impiegato meno di due minuti per prendere coscienza di tutto questo e elaborarlo.

Esco dall’auto. Mentre infilo la chiave nel portone d’ingresso mi viene in mente una storiella simpatica che mi ha raccontato oggi un collega: è uno spunto buono, può far sorridere anche Luisa. Apro la porta di casa. “Ciao, tesoro!”, le dico sorridendo, e la bacio. “…Oh meno male che sei tornato…non ti dico che giornata…”. E tutti gli eventi accaduti scorrono come un torrente.
 
Come un atleta prima della prova. Concentrazione, prendere coscienza della situazione, delle circostanze, delle proprie forze. Prepararsi. Decollo e atterraggio sono due fasi delicate, anche parlando di uscita e rientro a casa.

Non occorrono grandi cose o molto tempo. Però, sì, occorre il desiderio di creare un clima disteso e di unione reciproca, anche se c’è stanchezza, stress e tensione accumulata. Quel clima si può costruire con le parole adeguate, con un saluto, un gesto affettuoso, una comunicazione che dice “Sono qui per te, per voi, e sono contento di questo”, “Siamo di nuovo insieme, aiutiamoci a sostenerci a vicenda”.

Mi raccontava la moglie di un amico che ogni sera, quando torna a casa il marito, sa che deve sforzarsi di accogliere il marito con un bel sorriso, da quello dipende tutto il resto, poi può raccontargli anche tutte le disavventure che vuole, perché il marito ha avuto il bel sorriso iniziale. Se non c’è quel sorriso, la serata si presenta cupa.

Abitudini, gusti, sensibilità diverse: in quella famiglia funziona così. Abituarsi a toccare i tasti giusti che fanno scorrere la relazione agilmente e in modo positivo è un’arte che vale la pena imparare.

Si potrebbe obiettare che questa è ipocrisia, mostrare all’esterno una gioia che non corrisponde del tutto al proprio stato d’animo di quel momento.

Ipocrisia sarebbe se ci fosse doppiezza tra la volontà e quello che si mostra all’esterno. Invece qui la volontà è orientata allo stare bene insieme anche se lo stato d’animo – che non dipende sempre e del tutto da noi – non è in sintonia con quello che esprimiamo.