Poi c'ero io, Michele. Michele Amitrano. E anche questa volta ero terzo, stavo salendo bene, ma per colpa di mia sorella adesso ero fermo. 
Stavo decidendo se tornare indietro o lasciarla là, quando mi sono trovato quarto. Dall'altra parte del crinale quella schiappa di Remo Marzano mi aveva superato. E se non mi rimettevo subito ad arrampicarmi mi sorpassava pure Barbara Mura. 
Sarebbe stato orribile. Sorpassato da una femmina. Cicciona. 
Barbara, tutta rossa, la maglietta sporca, i capelli arruffati, mi è venuta addosso pronta a fare a botte: << Tocca a te (fare la penitenza). Tu sei arrivato ultimo. Hai perso!>>
Ho messo i pugni avanti: <<Sono tornato indietro. Sennò arrivavo terzo. Lo sai>>
<<Che c'entra? Hai perso!>> 

<< A chi tocca fare la penitenza? - Ho domandato al Teschio - << A me o a lei?>>
Si è preso tutto il tempo per rispondere, poi ha indicato Barbara.
<< Hai visto? Hai visto?>> - Ho amato il Teschio.
Barbara ha cominciato a dare calci nella polvere. - << Non è giusto! Sempre a me! Perché sempre a me?>>
Non lo sapevo. Ma sapevo che c'è sempre uno che si becca tutta la sfortuna. In quei giorni era Barbara, la cicciona, era lei l'agnello che toglie i peccati.
Mi dispiaceva, ma ero felice di non essere io al suo posto.
Barbara si aggirava tra noi come un rinoceronte <<Facciamo la votazione allora! Non può decidere tutto lui >>.
A distanza di ventidue anni non ho ancora capito come faceva a sopportarci. Doveva essere per la paura di rimanere da sola...

(Niccolò Ammanniti, Io non ho paura, Einaudi tascabili, Torino, 2001, pp. 7, 22-23).

Capitolo IV - Dall'infanzia di Pantagruele

<<….Non starò qui a dire come, a ciascuno dei suoi pasti, succhiava il latte di quattromilaseicento vacche; e come, per fargli un padellino da cuocergli la pappa, furono impegnati tutti i padellari di Saimur nell'Angiò e di Villedieu in Normandia, e di Bramont in Lorena, e quella pappa poi gliela servivano in un gran truogolo il quale si trova ancora oggi a Bourges, vicino al Palazzo di città... Un certo giorno sul far del mattino, che volevano fargli tettare una delle sue vacche (perché non ebbe mai altre nutrici, siccome dice la storia) egli si liberò un braccio dai legacci che lo tenevano fisso alla culla, e ti prende la detta vacca un po' sopra il garretto, e la mangiò...>>

(François Rabelais, Gargantua e Pantaguele, Edizioni Einaudi, Torino, 1993, p. 187).