Poche e incerte sono le notizie riguardanti la vita di Giovenale, anche perché le sue satire, a differenza di quelle di Orazio, non sono ricche di riferimenti personali. Secondo la bibliografia più antica, Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino tra il 50 e il 60. Trasferitosi in età giovanile a Roma, vi studiò retorica ed esercitò più tardi l'attività di declamatore e quella di avvocato, ma con scarsi successi, tanto che Marziale ce lo ricorda nella triste ed umile condizione di cliente, alla quale fa esplicito riferimento il poeta stesso nella quinta satira.

Della sua vita non si sa più nulla, tranne che cominciò a scrivere satire dopo i quarant'anni. Sedici sono le satire di Giovenale, suddivise in cinque libri in ordine cronologico, pubblicate dopo la morte di Domiziano (96 d.C.), durante i tempi felici di Nerva e di Traiano, che permisero libertà di parola e di stampa. Il loro carattere peculiare è l' indignatio ("Si natura negat, facit indignatio versum", sat.I): lo sdegno e la collera contro tutto ciò che ai suoi occhi appariva corrotto, vizioso, iniquo, contro il lusso e le depravazioni, contro i soprusi che i potenti esercitano sui deboli e sui poveri, contro i disonesti e gli imbroglioni. Del resto l'epoca sua gli offriva gli esempi più svariati di vizi: "Et quando uberior vitiorum copia?" (sat. I),"Quando mai ci fu una così grande abbondanza di vizi?". E secondo l'autore sono stati i Greci e gli orientali a introdurre a Roma il lusso e le ricchezze che corrompono gli animi e apportano ogni malanno, ricordando in questo le teorie di Catone il Censore.

La prima satira ha carattere proemiale: in una società sedotta dal vizio e dal malcostume "Difficile est saturam non scribere", anche se molto pericoloso, per cui Giovenale preferisce rivolgersi ai morti piuttosto che ai vivi. Nelle altre satire i temi sono vari:

  • contro gli immorali ipocriti (II),
  • contro i disonesti e gli arrivisti (III),
  • contro gli adulatori (IV),
  • sulla penosa condizione dei clienti,
  • costretti ad umiliarsi per avere in cambio la sportula (V),
  • contro le donne,
  • sempre più corrotte come Messalina (VI),
  • sulla condizione dei poeti, sempre squattrinati e mai gratificati (VII),
  • sulla dignità della persona,
  • che prescinde dalla nascita (VIII),
  • sulla ripugnanza dei ricchi avari ed effeminati (IX),
  • su quali siano i veri bisogni dell'uomo e cosa occorra chiedere agli dei: "Orandum est ut sit mens sana in corpore sano" (X),
  • contro chi vive per soddisfare il peccato della gola (XI),
  • contro chi finge di essere devoto verso gli dei,
  • ma poi farebbe qualsiasi cosa per una eredità (XII),
  • contro i truffatori (XIII),
  • contro gli uomini, a volte più violenti delle bestie ( XV ),
  • contro i privilegi accordati ai militari ( XVI incompleta).

La quattordicesima satira è quella pedagogica, che sviluppa il tema della educazione dei figli; Giovenale dice che in famiglia conta soprattutto l'esempio e osserva che la crisi dell'educazione dei ragazzi in parte va attribuita alla mancanza di buoni esempi. Nil dictu foedum visuque haec limina tangat, intra quae pater est; procul, a procul inde puellae lenonum et cantus pernoctantis parasiti. Maxima debetur puero reverentia. (vv. 44 sgg.) (Nulla che sia turpe a dirsi e a vedersi tocchi queste soglie, dentro le quali c'è un padre: lontano da qui, si lontano le giovani disoneste, e il canto del parassita che di notte fa giorno! Il più grande rispetto è dovuto al fanciullo.).

La satira di Giovenale è, dunque, amareggiata, risentita, mossa dalla rabbia dell'uomo e non del politico che ricerca delle soluzioni, e proprio per questo è satira sociale e non politica; a differenza di quella oraziana che, pur affrontando tematiche connesse con la realtà quotidiana, non perde mai il suo carattere pacato e sorridente e il suo linguaggio umile e familiare ("sermones", le definì Orazio), la satira di Giovenale, volendo rappresentare una realtà eccezionalmente corrotta, tende ad accostarsi ai toni patetici della tragedia e adotta un linguaggio "alto", uno stile che predilige immagini iperboliche, espressioni poco frequenti, vocaboli non comuni.

SENTENZE LATINE Ad utilitatem vitae omnia consilia factaque nostra dirigenda sunt. (Cicerone, De orat., 5) Ad utile della vita (nostra e dei nostri simili), noi dobbiamo convergere i nostri pensieri e le nostre opere. Non pudeat quae nescieris, te velle doceri; scire aliquid laus est, culpa est nil discere velle. (Catone, Dist., 4, 29) Non vergognarti di voler imparare le cose che non sai, poiché è degno di lode il saper qualche cosa, ed è vergogna il non voler saper nulla. Nati sumus ad congregationem hominum et ad societatem communitatemque generis humani. (Cfr. Cicerone, De fin. Bon., 4, 4) Il genere umano è nato con l'istinto della unione, dell'associazione e della comunanza. Nulla me res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. (Cfr. Seneca, Epist., 6, 4) Nessuna cosa mi può dilettare, sia pur egregia e salutare, se è a me solo nota.

Homo sum: humani nihil a me alienum puto. (Terenzio, Heaut., 77) Sono un uomo, e, per conseguenza, obbligato a tutti i doveri della umanità. Vigilando, agendo, bene consulendo, prospera omnia cedunt. (Sallustio, Iug., 84) Vigilando, operando e meditando, tutte le cose prosperano. Vita sine proposito vaga est. (Seneca, Lett. A Lucilio, 95,46) La vita, senza una meta, è vagabondaggio. Quae optima sunt, esse communia. (Seneca, Lett. A Lucilio, 12, 11) Le idee belle e vere appartengono a tutti.